C’è uno spettacolo a teatro questo Natale che fa dimenticare per un paio d’ore le ambasce della vita quotidiana. E c’è anche il pericolo che, essendo divertente ma nient’affatto stupido, abbia un effetto ironizzante di piu lunga durata sul quotidiano. Il titolo, “Vicini di stalla”, suggerisce il tema natalizio con l’adeguato humor.
Trattasi di un paio di pastori, zio e nipote, che per le scarse capacità di orientamento del piu giovane (o si tratta invece di volontà Superiore?) si ritrovano a prendere in affitto per la notte una stalla a Betlemme, naturalmente nel giro di giorni della Natività. Lo zio non ha mai fatto torto alla memoria della defunta moglie, se non con l’asina Rosaria che gli è compagna nelle lunghe ore di noia assieme alle pecore, sui monti. Il nipote è un aitante giovanotto che si accende facilmente, specie davanti alle ingiustizie. E il suo carattere lo ha portato ad uccidere un console romano, ragion per cui i due fuggono ormai da qualche tempo per evitare di incorrere nella giustizia romana, che li spedirebbe dritti dritti sulle due croci che gli sono state preparate con largo anticipo.
Ma il destino beffardo gioca la sua partita a scacchi: il rabino che affitta loro la stalla ha intuito che hanno qualcosa sulla coscienza e facendo due piu due ha capito anche cosa. Naturalmente da uomo d’affari propone un equo scambio: il re Erode vuole che venga ucciso un bambino, si proprio quel Gesu che è appena nato nella stalla accanto e al quale lo zio si sta tanto affezionando. Se vogliono evitare la croce e guadagnare anche un bel gruzzolo, gli basterà uccidere il neonato. A loro la scelta.
Intanto un po’ per circostanza e un po’ per gusto, sta nascendo una storia d’amore tra il pastore giovane e l’altra vicina di stalla, romana/sicula, di professione cerusica/prostituta… che stai a vedere è la figlia del console che i due pastori hanno ucciso.
Il testo brillante di Antonio Grosso (che interpreta anche il pastore giovane) e Francesco Stella riesce nel difficile lavoro di amalgamare commedia degli equivoci che non disdegna gli anacronismi (dagli effetti a volte esilaranti) con una visione non superficiale e con punte di drammatico della storia che racconta. Nella seconda parte, infatti, quando i pastori devono scegliere se uccidere il bambino o venire crocifissi, e quando poi accade la strage degli innocenti, ognuno degli attori ha un suo monologo che da ridere non è. Eppure la narrazione non si appesantisce mai, il registro cambia quasi naturalmente dall’uno all’altro senza sfociare nel patetico.
I due pastori vengono dal sud dell’Impero (da Napoli) e anche il rabino, asservito al potere e infido come si conviene, dissimula non molto bene la sua provenienza partenopea, anche se la rinnega. Eco da “La smorfia” di Troisi/De Caro/Arena non guastano e c’è pure un pizzico del Ladrone di Pasquale Festa Campanile interpretato da un giovane Montesano.
Un plauso a tutti, padronissimi della scena, e un apprezzamento in piu allo “zio” Ciro Scalera, che passa dal teatro popolare napoletano a Stan Laurel al dramma nella stessa scena, come una specie di camaleonte. La regia disinvolta e sempre puntuale è di Ninni Bruschetta.
Al Teatro della Cometa, a Roma, fino al 10 gennaio.